IL FLIC-DANS-LA-TÊTE E IL LABORATORIO DI RICERCA

IL FLIC-DANS-LA-TÊTE E IL LABORATORIO DI RICERCA

tesina di fine tirocinio di Francesca Giovannelli di Roma

 

PREMESSA

Le tecniche del Flic-dans-la-tête sono nate all'inizio degli anni '80, quando Boal – arrivato a Parigi dall'America latina – ha avuto modo di importare il Teatro dell'Oppresso (TdO) anche in Europa.

Queste tecniche sono tra le ultime sue produzioni creative e nascono dall'esigenza di adattare l'uso del TdO alle oppressioni “occidentali”, più interiori, meno visibili e apparentemente meno concrete.

Del resto non tentare questa nuova sperimentazione avrebbe contraddetto l'assunto di base secondo il quale sono le tecniche che devono adattarsi alla persona oppressa (e alla sua oppressione) e non viceversa.

Da quando sono entrata in contatto con il Teatro dell'Oppresso, le tecniche del Flic-dans-la-tête hanno subito suscitato il mio interesse e la mia curiosità, in parte per la mia formazione professionale, in parte per il mio amore per il teatro e in parte per l'insofferenza e la frustrazione che mi creano l'individualismo e l'apatia caratteristici del prevalente modo di vivere nella nostra attuale società.

Mentre lavoravo come psicologa in Val Camonica - dove avevo avuto un incarico temporaneo in un Ser.T. - continuavo ad essere insoddisfatta del mio lavoro, ad avere la sensazione che, se è vero che un'oppressione non è mai solo psicologica, di conseguenza il lavoro centrato sull'individuo sarà sempre e solo un lavoro a metà.

Con questo non voglio dire che non esistono approcci di psicoterapia in cui il terapeuta non tenga in considerazione la molteplicità dei livelli su cui si struttura il disagio individuale, ma che di fatto lavora poi solo su quest'ultimo, al limite demandando ad altri professionisti gli altri aspetti del “problema”. Questo a mio avviso, seppure involontariamente ed indirettamente, rischia di rinforzare la visione individualistica della vita tipica della nostra società, in cui ognuno è chiuso nella propria sofferenza e continua illusoriamente a credere di poter “guarire” da solo o al massimo con le persone a lui più vicine.

Questo lavoro “per sezioni”, seppure più “economico”, ricorda quello svolto dalla medicina ufficiale, in cui l'individuo viene forzatamente scomposto in tanti organi interni, trattati quasi sempre separatamente gli uni dagli altri.

In questa cultura della “specializzazione”, mi chiedo se le tecniche del flic-dans-la-tête rappresentino una reale possibilità di connettere i diversi piani dell'esistenza umana, nonché una modalità di lavoro concreto sui vari aspetti che la stessa oppressione contiene simultaneamente: l'aspetto corporeo, psicologico, relazionale, culturale, socio-politico.

“Bisogna avere il coraggio di essere felici”, dice Boal.

Nell'America latina degli anni '60, gli oppressori erano le dittature militari e liberarsi significava avere il coraggio di lottare contro quegli oppressori, forse anche a costo della vita. Ma qui - in Europa e in Italia - cosa significa qui ed ora “avere il coraggio di essere felici”?

Prendendo spunto dal laboratorio di ricerca che si è svolto a Roma nel 2004-2005, l'obiettivo di questo breve lavoro può essere schematizzato in tre punti chiave:

1) ragionare sulle tecniche del Flic-dans-la-tête, il loro campo di applicazione e la loro coerente modalità di utilizzo;

2) riflettere sui punti di forza e di debolezza delle tecniche;

3) stimolare il dibattito ed il confronto sull'argomento.

 

INTRODUZIONE ALLE TECNICHE

La peculiarità del Teatro dell'Oppresso “è quella di interagire con il contesto in cui opera in modo attivo, cercando di produrre un cambiamento senza perdere di vista la relazione esistente tra la sfera personale e quella sociale; un esempio esplicativo è il caso delle tecniche del Flic-dans-la-tête elaborate in Europa per rispondere a delle istanze socio-culturali differenti da quelle latinoamericane” (Alice Mele: tesi di laurea Il teatro dell'oppresso di Boal. Diffusione e sviluppo nel contesto socio-culturale italiano” anno accademico 2004-2005).

Come sottolinea Alice Mele, la situazione italiana degli anni '80 è caratterizzata da eventi socio-politici significativi (deficit della spesa pubblica, corruzione politica e loggia P2, continue crisi di governo e brevi legislature) che hanno portato ad una progressiva sfiducia nel lavoro dei sindacati e ad un allontanamento delle persone dalla vita politica del paese. In questo scenario di sempre maggiore mancanza di ideali e di radicamento dell'isolamento e dell'individualismo, le nuove applicazioni del TdO – ovvero le tecniche del Flic - perdono la connotazione socio-politica che caratterizza questo metodo teatrale e sconfinano spesso nel campo terapeutico.

Come si è “adattato” allora il TdO, attraverso queste nuove tecniche, al contesto sociale italiano? Si è “adattato” ad esso o si è “omologato” alla tendenza di massa, lasciandosi “inglobare” da questo nuovo scenario politico?

Dov'è finito uno degli aspetti principali del TdO secondo il quale lo sviluppo personale non è mai fine a se stesso, ma sempre in funzione del cambiamento sociale?

L'affermazione secondo la quale il TdO si muove ai confini fra teatro, educazione, terapia, intervento sociale e politica non so se sia realmente corretta. O almeno non la ritengo corretta nel caso in cui indichi semplicemente che ogni sua tecnica può essere rispettivamente utilizzata in uno di questi ambiti specifici; credo infatti che questa affermazione dovrebbe anche sottolineare la possibilità del metodo di agire contemporaneamente su tutti questi livelli, indipendentemente dalla tecnica usata.

Probabilmente in tecniche come il Teatro-Forum, usate in situazioni di oppressione “esterna”, l'elemento teatrale è già sufficiente di per sé a produrre un cambiamento anche a livello individuale, perchè l'attore o lo spett-attore sperimenta sulla scena (ma ancora prima nei giochesercizi, nella preparazione del modello, nel lavoro sui personaggi) i suoi limiti e le sue risorse fisiche, emotive, relazionali, comunicative, ecc.

In considerazione del fatto che le tecniche del Flic-dans-la tête – occupandosi di oppressioni “interne” - si concentrano già sul cambiamento individuale, sarebbe coerente riuscire ad individuare le modalità di connessione tra il livello personale e quello sociale nell'uso di queste tecniche, soprattutto di quelle introspettive. Solo in questo modo, a mio avviso, si potrebbe chiarire la confusione nata fra le tecniche del Flic e lo Psicodramma o il Teatro-Terapia e tornare a parlare a ragione ed inequivocabilmente di Teatro dell'Oppresso.

E' più o meno sulla base di queste riflessioni che è nata l'idea del laboratorio di ricerca, per cercare di sciogliere dei dubbi e tentare di restituire alle tecniche del Flic una maggiore coerenza all'interno della cornice unitaria del TdO, provando ad individuare e ad analizzare le matrici socio-politiche comuni ai rispettivi disagi individuali.

 

IL LABORATORIO DI RICERCA

Il laboratorio di ricerca sulle tecniche del Flic è stato condotto da Roberto Mazzini e si è svolto a Roma da ottobre 2004 a giugno 2005. Il percorso si è articolato in 7 stages di due giorni ciascuno e in ogni stage si è lavorato su una storia di disagio individuale, cercando di connettere l'oppressione personale con elementi oppressivi presenti ad altri livelli.

Questi altri elementi sono stati definiti “SPIC”: Sociali, Politici, Ideologici, Culturali.

Nel laboratorio sono state usate esclusivamente tecniche introspettive, essendo queste – più che quelle prospettive - a creare, almeno in Italia, una maggiore confusione.

La tecnica scelta di volta in volta è stata usata nella sua modalità classica, così come ideata e descritta da Boal. mentre il dibattito finale è stato sostituito dal lavoro di connessione con gli elementi “SPIC”. Questo perchè quasi sempre è proprio il dibattito ad essere maggiormente esposto a rischi di “psicologizzazione”, sia da parte del conduttore che del gruppo. Ci si concentra infatti sempre troppo solo sul Protagonista interpretando, peraltro spesso in maniera del tutto arbitraria, i suoi comportamenti, le sue intenzioni, i suoi atteggiamenti.

Se in ogni stage ci fosse stato più tempo, sarebbe stato interessante non tanto eliminare il dibattito ma rimandarlo alla fine, in modo da tenere in considerazione tutti i livelli emersi.

Le tecniche usate sono:

L'arcobaleno del desiderio (in due stages)

Il Flic e i suoi anticorpi (in due stages)

L'immagine analitica

Il circuito dei rituali e delle maschere

Il lavoro di connessione è stato fatto usando tecniche di Teatro-Immagine, Teatro-Forum, improvvisazioni, brainstoming, lavori in piccoli gruppi (per questo allego i resoconti dei vari stages).

 

Riflessioni sugli aspetti generali

Dalle discussioni post-stage fatte da un gruppo ristretto di persone (non tutti potevano o avevano interesse a restare), sono emersi degli spunti interessanti da tenere in considerazione in un'eventuale lavoro futuro:

1) Teatralità: si sente l'esigenza di curare di più questo aspetto. Ci si confronta innanzitutto su cosa si intende per “teatralità”. Chiarito che la “teatralità” non coincide con “esteriorità”, si evidenziano nelle scene i punti teatralmente deboli:

- si usa troppo il linguaggio verbale rispetto all'espressività corporea;

- le scene sono statiche, si usa male lo spazio estetico, non si usano oggetti simbolici, non si usa un linguaggio simbolico;

- bisognerebbe lavorare di più sulla costruzione del personaggio, sulla sua volontà e contro-volontà, perchè – anche se si parla di sé - risulta comunque demotivante entrare in scena come “se stessi”, senza un personaggio chiaro sotto;

- anche se le scene partono da situazioni reali, questo non vuol dire che debbano essere una copia di quella realtà, potrebbero essere anche simboliche o surreali;

anche alle immagini costruite nella scena potrebbero essere dati dei nomi storici, fantastici, mitologici a seconda di cosa richiamano alla mente (Dio, Budda, Babbo Natale, Icaro, ecc.).

Rispetto a questo punto, penso che – se il TdO nasce essenzialmente come metodo teatrale - allora forse una delle differenze principali tra le tecniche del Flic e ad esempio lo Psicodramma dovrebbe essere intanto nell'elemento teatrale in quanto tale e, di conseguenza, nelle competenze teatrali del conduttore. Infatti, se queste sono considerate tra le caratteristiche fondamentali che deve avere il Jolly per la preparazione e la conduzione di spettacoli di Teatro-Forum, perchè non dovrebbe valere la stessa regola anche per le tecniche del Flic, visto che sono sempre parte del Teatro dell'Oppresso?

Se non si cura ad esempio il lavoro sui personaggi, a cosa serve l'esistenza di una scena da rappresentare? Questa potrebbe essere un'altra differenza con lo Psicodramma o con altre tecniche di Teatro-Terapia, dove la scena rappresentata è una semplice copia di quanto avviene (o è avvenuto) nella realtà e dove l'unico “regista” è il Protagonista, mentre gli altri “attori” devono attenersi scrupolosamente solo alle sue indicazioni.

Contrariamente al timore del jolly o degli attori, spesso si è visto che, in scene di Teatro-Forum particolarmente “teatrali”, gli spett-attori intervengono più facilmente, proprio per lo scarto che si crea tra realtà e finzione: non sono io ad agire sulla scena, ma il mio personaggio. Questo facilita la sperimentazione dell'azione sulla scena e sarebbe interessante verificare se questo vale anche nelle tecniche del Flic.

2) Scelta delle storie: la storia su cui lavorare viene scelta in base alla risonanza del gruppo e questo è già un modo di “collettivizzare”, “pluralizzare” il problema individuale portato. Accanto a questo criterio classico di scelta, ne viene proposto un altro: scegliere le storie sulla base della presenza o meno in esse di elementi politici già espliciti. Questa proposta resta oggetto di acceso dibattito per l'intera durata del laboratorio di ricerca, ma di fatto non viene mai sperimentata. Forse viene fraintesa. Forse nel contesto del laboratorio avrebbe facilitato il lavoro di ricerca. Forse in un contesto “genuino” e non laboratoriale sarebbe forzata oppure, al contrario, potrebbe essere l'elemento che, in sede di “contratto” iniziale, chiarisce la differenza di questo lavoro con altri tipi di approcci.

A partire da questa considerazione, una riflessione riguarda i contesti nei quali finora sono state applicate le tecniche del Flic, nonché lo scopo della loro applicazione. Mi sembra infatti che questo punto sia la dimostrazione di quanta confusione ci sia sull'argomento. Se, come ho già detto, nel TdO, il cambiamento personale non è mai fine a se stesso ma sempre finalizzato al cambiamento sociale, allora forse la domanda di partenza su questo punto mi sembra coerente:

- quali sono le oppressioni psicologiche che mi impediscono di “fare politica?”

Partendo da questa domanda, credo che le tecniche del Flic possano essere usate indifferentemente:

in situazioni di disagio personale anche molto strutturato (penso ad esempio alla tossicodipendenza, dove la connessione tra micro e macro è tanto presente quanto inconsapevole);

in realtà di “movimenti” socio-politici (parlo esclusivamente della situazione italiana attuale) dove spesso non c'è coerenza tra gli ideali dichiarati e gli atteggiamenti e i comportamenti messi in atto dai singoli nella realtà quotidiana.

3) Ricerca teorica: accanto alla sperimentazione concreta all'interno del laboratorio, per parlare di una vera e propria ricerca ci sarebbe bisogno di una parte più teorica. Bisognerebbe raccogliere del materiale bibliografico finalizzato all'approfondimento di alcuni concetti e mettere per iscritto le eventuali modifiche apportate alle tecniche.

4) Equilibrio tra livello individuale e socio-politico: una difficoltà emersa riguarda il passaggio tra questi due livelli, spesso avvertito brusco e forzato. Ci si chiede allora: come esplorare le connessioni tra “flic” e “spic” senza psicologizzare, ma senza nemmeno squalificare il disagio del Protagonista? Bisognerebbe lavorare di più sulle connessioni specifiche tra l'oppressione individuale rappresentata e gli elementi “spic” che rinforzano quell'oppressione, senza astrarre o generalizzare troppo, finendo così per parlare dei massimi sistemi in modo sterile e decontestualizzante.

Per quanto riguarda questo punto, credo che ci sia stato esclusivamente un problema di tempo. Infatti il lavoro di connessione è stato fatto all'interno dello stesso stage e non avremmo potuto fare diversamente. In un contesto non laboratoriale sicuramente il passaggio tra i due livelli dovrebbe essere più graduale. Penso ad un percorso di “coscientizzazione” in senso freiriano, dove il lavoro su di sé è solo un primo passo per passare, sempre in termini freiriani, da una coscienza “ingenua” ad una coscienza “critica”. Chiaramente mi riferisco a percorsi protratti nel tempo.

5) Attivazione del pubblico: si avverte un'eccessiva passivizzazione del pubblico, soprattutto nella fase iniziale di racconto della storia da parte del Protagonista e nella prima improvvisazione. Questo comporta un notevole calo del livello di energia e ci si interroga su come poter ovviare a questo limite. Un'idea potrebbe essere quella di “teatralizzare” l'attenzione del pubblico fin dall'inizio, ad esempio con una certa postura, un certo tipo di atteggiamento fisico, espressivo, ecc., prestando tuttavia attenzione a non distrarre in questo modo il Protagonista e gli altri attori dall'improvvisazione.

 

Riflessioni sulle tecniche

L'analisi che segue delle singole tecniche usate nel laboratorio è un primo tentativo di mettere per iscritto quanto finora si è dibattuto e minimamente esperito sulla possibilità di un lavoro di connessione tra l'elemento individuale e quello socio-politico.

Per ogni tecnica vengono messi in luce i punti di forza e/o di debolezza ai fini del lavoro di connessione ed esplicitati dei dubbi o delle proposte per rinforzare i primi ed ovviare ai secondi.

L'immagine dell'arcobaleno del desiderio

Punti di debolezza ai fini del lavoro di connessione tra aspetti individuali e socio-politici:

analizzando i conflitti interni che il Protagonista ha nei confronti dell'Antagonista (desideri, volontà e pulsioni contrastanti), questa tecnica può risultare eccessivamente psicoanalitica;

anche il fatto che Boal parli di conflitto tra volontà cosciente e desideri inconsci rimanda ad un lavoro esclusivamente psicologico;

la figura dell'Antagonista sembra non avere nessun potere di incidere sulle emozioni del Protagonista e di conseguenza sul suo comportamento, quindi il livello di realtà non viene minimamente preso in considerazione. Prova ne è il fatto che alla fine è il Protagonista a restare solo con il suo arcobaleno e a fare i conti con le varie parti di sé;

il lavoro psicoanalitico prosegue, a mio avviso, nella tappa dell'agorà dei desideri, in cui le varie immagini interagiscono tra loro.

Dubbi, domande, proposte:

e se anche l'Antagonista mostrasse il suo “arcobaleno” e gli spett-attori mostrassero immagini di elementi socio-politici che interferiscono tra questo e l'”arcobaleno” del Protagonista?

L'immagine dei flics-dans-la-tête e dei loro anticorpi

Punti di forza ai fini del lavoro di connessione tra aspetti individuali e socio-politici:

utile per identificare i “flics” con personaggi reali e quindi per il passaggio da un concetto astratto di oppressione ad uno concreto (esempio di Boal: non è la chiesa che mi opprime, ma quel tale sacerdote che rappresenta quell'immagine di chiesa);

il fatto di dare un volto e un nome al proprio malessere rappresenta sicuramente un primo passo verso la sua risoluzione. Non si tratta più, infatti, di affrontare un'entità astratta con la quale può risultare difficile fare i conti, ma di confrontarsi con la sua rappresentazione concreta, in modo più “umano” e diretto e ipoteticamente più semplice.

interessante anche la collettivizzazione dei “flics” che fa pensare alla famosa matrice comune che porta alla loro costruzione;

l'analisi della relazione che hanno tra loro i vari “flics” mi sembra utile per esplorare la complessità della realtà, per una maggiore presa di coscienza di come i diversi livelli di essa interagiscono nelle dinamiche oppressive;

utile anche la tappa del forum lampo per la comprensione che da soli si può sì riuscire, ma insieme è meglio!

utile porre l'attenzione su quanto tempo, nella scena, il Protagonista si dedichi ai “flics” e quanto agli antagonisti reali; questo può aiutare a riflettere su due punti importanti: la visione più o meno individuale che il Protagonista ha della sua oppressione e delle conseguenti soluzioni; la paura che spesso si ha nell'affrontare la realtà che ci porta a considerare solo gli aspetti psicologici di un problema.

Punti di debolezza ai fini del lavoro di connessione tra aspetti individuali e socio-politici:

nella settima tappa (la creazione degli anticorpi), il Protagonista torna in scena e tenta di “disarmare” i flics con le proprie strategie personali, alcune prese anche in prestito dalle soluzioni portate dagli altri nel forum lampo. Tuttavia mi chiedo quanto qui sia incisivo il messaggio del “self-made-man”, secondo il quale vincere o perdere dipende esclusivamente da se stessi;

anche in questa tecnica il dibattito finale è centrato solo sul Protagonista decontestualizzato da tutto il resto. Questo sa molto di psicoanalisi ed il rischio che vedo è quello di rinforzare ancora di più la visione individualistica della vita, tipica della nostra società.

Dubbi, domande, proposte:

la lettura del comportamento che il Protagonista ha avuto nella tappa “fiera” dovrebbe essere allargata a riflessioni sull'analisi dei limiti e delle risorse del contesto sociale. E' possibile combattere i Flic solo con le proprie strategie? Per vincere basta riuscire a cambiare se stessi, oppure è necessario anche un cambiamento del contesto in cui ci si trova?

L'immagine analitica

Punti di debolezza ai fini del lavoro di connessione tra aspetti individuali e socio-politici:

troppa concentrazione solo sugli atteggiamenti del Protagonista, come se la possibilità di cambiare la situazione dipendesse esclusivamente da lui. Questo potrebbe risultare frustrante o viceversa stimolare vissuti di “onnipotenza”, ma – in ogni caso – mi sembra che in questo modo venga rinforzata la visione individuale e psicologica del problema, al limite non andando oltre l'aspetto relazionale con l'Antagonista;

la relazione fra Protagonista e Antagonista resta decontestualizzata, come se le cause del problema fossero all'interno di quella relazione in sé; di conseguenza è solo all'interno di quella relazione “pura” che vengono ricercate le possibili soluzioni al problema. Questo non mi sembra realistico, ma più che altro utopistico e magico.

l'ottava tappa (nuova improvvisazione) conferma quanto detto: le immagini dicono infatti al Protagonista “attento che ci stai ricadendo”, senza però analizzare quali altri elementi – oltre a quelli interni - lo portano a subire questa “ricaduta”.

Dubbi, domande, proposte:

dopo le immagini del Protagonista e dell'Antagonista, si potrebbero fare le immagini dell'elemento socio-politico che Protagonista e Antagonista rappresentano e lavorare su quelle. Come però?

Il circuito dei rituali e delle maschere

Punti di forza ai fini del lavoro di connessione tra aspetti individuali e socio-politici:

utile per rendersi conto di quanto un malessere individuale sia influenzato e alimentato dai contesti esterni di cui facciamo parte e di come i rituali sociali spesso ci costringono e limitano la nostra espressione, come dice Boal.

Punti di debolezza ai fini del lavoro di connessione tra aspetti individuali e socio-politici:

mi sembra però che in questa tecnica il concetto di maschera sociale venga inteso più come un atteggiamento della persona che, se reso consapevole, si può modificare e non come qualcosa di più profondo legato al ruolo sociale ricoperto. Questa visione è molto psicologica e non mi sembra che la maschera sociale fosse intesa così da Boal, almeno inizialmente.

 

CONCLUSIONI

Quanto scritto in questa tesina è frutto di una semplice riflessione personale, quindi non ha assolutamente la pretesa di essere inteso come verità, ma solo come punto di partenza per un dibattito più approfondito sull'argomento.

Sarebbe interessante continuare il lavoro di sperimentazione in un contesto di laboratorio e contemporaneamente cominciare ad usare questa nuova metodologia di applicazione delle tecniche anche in contesti esterni, per valutarne l'efficacia.

La sperimentazione potrebbe anche continuare con la presentazione di spettacoli pubblici, ad esempio

contaminando Flic e Forum. Ma questo è un altro punto.

Continuo a credere nelle grandi potenzialità del TdO e il mio principale interesse rimane quello di approfondire il dibattito sull'argomento, raccogliere commenti e ulteriori spunti di riflessione, sicura che solo attraverso la condivisione, il confronto e la collaborazione si possa arrivare un po' più lontano dal punto in cui ci si trova.