Patrizia Corvino

(publichiamo su gentile concessione dell'autrice, una parte della sua tesi di laurea)

 

 

PRESENTAZIONE

Toribio, caporedattore di "Diario", quel giorno era molto felice: la censura non avrebbe più colpito i testi prima della pubblicazione <<Qui si pubblica solo quello che voglio io!>> Esultava.

Cercando un titolone da scrivere a lettere cubitali per il suo giornale finalmente libero, Toribio chiese aiuto ai suoi colleghi che suggerirono titoli eclatanti sullo sport, la cronaca nera, e quella rosa, ma nessuno di quelli che gli fornirono sembrava adatto per un’occasione così importante. Si fece avanti, timidamente, un giovane tirocinante, che disse di avere un’idea per il nuovo titolo; Toribio, che ormai disperava di non riuscire a trovare un titolo giusto, lo invitò con impazienza a parlare e il giovane: VERO PLEBISCITO:IL POPOLO HA DIMOSTRATO IL SUO VIOLENTO RIPUDIO ALLA DITTATURA, VOTANDO IN MODO MASSICCIO I CANDIDATI DELL’OPPOSIZIONE. Ci fu un gran disagio generale. Toribio era molto preoccupato. Il titolo andava bene, ma… bisognava cambiare qualcosa. Cominciarono con il cambiare la parola "dittatura" che sembrava troppo accusatoria del precedente governo; poi "plebiscito": l’unanimità popolare può creare panico; poi anche "massiccio". E, nonostante la contrarietà espressa dal giovane, Toribio diede alle stampe: VITTORIA DELLA DEMOCRAZIA: IL POPOLO HA VOTATO LIBERAMENTE I CANDIDATI PREFERITI, ringraziandolo per la buona idea.

L’ambiente era festoso. La frase che riecheggiava per tutta la redazione era sempre la stessa: fortunatamente la censura è finita! Ma, improvvisamente in mezzo all’allegria generale, Toribio diventa preoccupatissimo. <<Ascoltate, penso di aver commesso un errore enorme… Il titolo non era ancora finito… Non era…>>. <<E cosa avremmo dovuto ancora censurare?>> Chiese il tirocinante scoraggiato. Toribio, molto spaventato, tentava di ricordare il testo: <<Vittoria della Democrazia: IL POPOLO…>>. Fece una lunga pausa e pieno di paura chiese: <<Ditemi sinceramente: voi non trovate che la parola POPOLOsuoni un po’ sovversiva…?>> Fine

(sintesi di: "la censura è finita" AUGUSTO BOAL)

Questo racconto, al di là della nostra passata esperienza di dittatura e censura, può essere letto come una metafora dell’idea che Boal ha delle oppressioni, che sono spesso radicate nella nostra testa e non ci permettono di cambiare nemmeno quando ne avremmo tutte le opportunità.

Boal, venendo in Occidente, dice Roberto Mazzini, si rende conto, che spesso colui che si sente oppresso non sa cosa vuole, e che anche quando sa cosa vuole, non riesce ad agire per ottenerlo, perché qualcosa dentro lo blocca… il flic (poliziotto). E’ da questa ipotesi che Boal sviluppa le tecniche del Flic dans la tete.

Boal stesso racconta il suo incontro con la nostra cultura:

(…) sono emerse delle oppressioni a me sconosciute: la solitudine, l’impossibilità di comunicare con gli altri, la paura del vuoto. Per chi come me fuggiva da dittature esplicite crudeli e brutali, era naturale che questi temi sembrassero in un primo tempo superficiali e poco degni di attenzione. Era come se io chiedessi sempre <<ma dove sono i flic?>> Perché ero abituato a lavorare con oppressioni concrete e visibili.(…)

(…) è l’America Latina; dove uomini e donne del popolo sono fucilati nelle strade, cacciati dalle piazze pubbliche; dove le organizzazioni popolari proletarie e contadine, studentesche e artistiche, sono sistematicamente smantellate e distrutte, dove i loro leader sono imprigionati, torturati e uccisi o esiliati.

E’ vero: è là che è nato il Teatro dell’Oppresso!

(…) un uomo è stato castrato sulla pubblica piazza (…) in Perù; un compositore ha avuto le mani tagliate nello stadio nazionale di Santiago; un contadino ha avuto la pelle tagliata e ricoperta di miele affinché il suo corpo fosse divorato dalle formiche (…) in Brasile; all’Università di La Paz in Bolivia, gli studenti sono stati chiusi in un recinto e mitragliati da aerei a volo radente; (…) in Messico trecento studenti sono stati uccisi a colpi di cannone (…)

E’ là che è nato il teatro dell’oppresso!

50.000 morti in 15 giorni: Cile. 50.000 morti in 15 mesi: Argentina. 500.000 morti di fame, morte lenta, silenziosa, poco spettacolare: Brasile.(…)

L’America Latina è un continente rosso fiumi di sangue.

E’ là che è nato il Teatro dell’Oppresso!

Quando mi domandavano se questo poteva servire anche qui, in Europa, io rispondevo di sì. Io rispondo di sì.

Certamente qui non ci sono attualmente, tante atrocità, in tali proporzioni. In ogni caso non dopo il nazifascismo.

Ma ciò non impedisce che ci siano, anche qui, degli oppressori e degli oppressi. (…) Chi dice che in Europa non ci sono degli oppressi è un oppressore. (…) E’ vero che si tratta di un’oppressione diversa, è vero anche che i metodi di lotta per venirne a capo saranno diversi. Il TdO è soprattutto un lavoro concreto su una situazione concreta, in un momento dato, in un luogo determinato. E’ uno studio, un’analisi, una ricerca.

Se qui l’oppressione è più sottile, può essere che i metodi per combatterla debbano essere più sottili.(…)

Nell’incontro con le società occidentali (dal 1976 Boal è a Lisbona poi a Parigi), dunque, il TdO si ridefinisce nelle sue forme per affrontare oppressioni nuove.

L’oppressione è il fulcro concettuale del tdo, il contenuto sul quale lavora. Per Boal il termine oppressione è sinonimo di violenza, cioè di strapotere di una parte e non solo per l’uso di mezzi che danneggiano fisicamente. Il suo punto di partenza è soggettivo: la sensazione di malessere, disagio, ingiustizia; il tdo si rivolge a tutti coloro che si sentono oppressi per dare loro degli strumenti di riflessione sulla situazione.

Ovunque ci sia anche una sola persona che si senta oppressa, là può essere utile il Teatro degli Oppressi.

In Sudamerica il tdo aveva affrontato situazioni oppressive chiaramente dicotomiche: oppressi da una parte e oppressori dall’altra. In Occidente le cose si sono un po’ complicate: qui la gente non si lamenta della repressione operata, ma più spesso di fenomeni quali l’incomunicabilità, il disagio, il senso di vuoto. L’oppressore spesso non è chiaramente identificabile; si avverte un senso di impotenza, di confusione, o ci si trova di fronte alle figure che Boal chiama degli "oppressi-oppressori" (che opprimono in una situazione e sono oppressi in un’altra) in quanto oggi, tutti noi, ricopriamo ruoli diversi, con diversi poteri; c’è sempre qualcuno più debole di noi in qualche circostanza, sul quale possiamo sfogare le nostre frustrazioni. In questo senso, per Boal, è utile cominciare a liberarci delle nostre oppressioni personali, da lì, però, bisogna partire per un’analisi più profonda e svolta collettivamente, per un percorso di "coscientizzazione" e di responsabilizzazione che individui quali sono le strade per un cambiamento possibile.

<<Il lavoro di Boal non ha avuto un incontro adeguato con la cultura italiana, pure abituata a tradurre molto e a capirsi guardando nello specchio delle differenze specialistiche e planetarie. Dal tempo della fortunata edizione italiana del Teatro do Oprimido , libro Feltrinelli di notevole richiamo, sono intercorsi eventi apparentemente favorevoli alla fortuna di questo autore. L’evento elettorale che lo ha portato al parlamento di un paese diviso, come il suo Brasile, ha rilanciato al contempo la sua identità di intellettuale "contestualizzato" e il senso delle sue incursioni teatrali nel sociale; l’apertura del Centro del Teatro dell’Oppresso a Parigi ne aveva felicemente rimesso alla prova la metodologia di lavoro, con importanti ricadute nella militanza sua propria e nei gruppi che a lui si richiamano anche in Italia. Ma evidentemente proprio questi avvicinamenti hanno provocato reazioni di allontanamento nella grande editoria, nei centri studi e nelle università del nostro Paese.(…). Essendosi avvicinato geograficamente, Boal è parso uscire dalla cultura della differenza, sicché il suo pensiero ha perso in credibilità esotica (…). Dunque appena cambiò il vento, dopo il primo successo, Boal fu stigmatizzato come epifenomeno del ’68.(…). Un teatro informale come quello di Boal non sarebbe nemmeno registrabile nei formulari dei beni culturali. (…) è in diminuzione la domanda socio-politica che lo sosteneva un quarto di secolo fa: quando i giovani erano in lotta e le classi subalterne non erano attaccate, come oggi, con il ricatto del declassamento nei cronicari dei "bisognosi".(…) >> A dirlo è Claudio Meldolesi, docente di Storia dello Spettacolo al Dipartimento Arte Musica Spettacolo dell’Università di Bologna, nell’introduzione all’edizione italiana, "L’arcobaleno del desiderio" di A. Boal ( 1994, la meridiana)

L’idea, di un teatro inteso come creazione collettiva è strettamente legato alla realtà sociale di quei paesi dell’America Latina che Boal definisce di <<neocolonizzazione economica nordamericana>> e <<neocolonizzazione culturale europea>>. << E in questo senso,>> dice Giorgio Ursini nella premessa a "Enrique Buenaventura Le maschere il teatro" (1979, Feltrinelli),

<<che la componente più ricca e virtualmente suscettibile di sviluppi sia artistici che politici è quella che tende a collegare strettamente le forme artistiche teatrali con la situazione politica reale nel tentativo di trasformarla>>. In Sud America <<quelli che si presentano come valori nazionali>> dice Ursini <<non sono che la concezione unitaria di una cultura che in realtà è soltanto la storia codificata che racconta della borghesia occidentale. Destinatarie di tale cultura, sono principalmente le fasce piccoloborghesi, frange limitate ma indispensabili a un potere che per potersi esercitare necessita del sostegno intero dei ceti privilegiati.

Il teatro offerto loro, dal punto di vista della sua origine, dei suoi contenuti e delle sue forme d’espressione, non può non manifestare un suo conformismo: teatro parassitario, estraneo alla vita globale della società, esteticamente derivato da altri modelli, politicamente ambiguo ed infine pervaso da un’ideologia irriducibile a qualcosa di diverso dagli interessi delle classi dominanti>>

<<Boal appartiene al nuovo teatro latinoamericano (teatro indipendente , creazione collettiva ecc.), teatro che nasce>> dice ancora Ursini citando José Monleòn, <<in opposizione a questo stato di cose, come tentativo di rappresentare le condizioni effettive delle masse lavoratrici, di mostrare la funzione reale dei presunti valori nazionali, le complicità che questi ultimi istituiscono con i valori in senso stretto: la strategia economica del grande capitale il suo bisogno di riprodursi rimuovendo qualsiasi ostacolo atto a pregiudicare le necessità del suo ciclo e il processo della sua espansione, a compromettere il consolidamento dei suoi mercati, e di conseguenza l’opportunità per il neocolonialismo, di realizzare tutto ciò in contesti politici, sociali e culturali resi docili attraverso gli apparati repressivi degli stati nazionali ma anche attraverso i loro apparati ideologici.

E in questo senso la possibilità di un teatro latinoamericano si è giocata, e si continua a giocare su un terreno ben più vasto di quello estetico.>>

In Sudamerica l’oppresso sapeva perfettamente cosa voleva (la terra, il lavoro, la giustizia), qui, o non sa, oppure quando sa è bloccato. E’ come se l’oppressore sia entrato nella mente dell’oppresso e lo opprima dall’interno bloccando ogni possibilità di trasformazione.

Il risultato della nostra incapacità di riprogettarci è che siamo tutti oppressi, o come va di moda dire oggi "depressi". La depressione viene considerata da molti psicanalisti una malattia sconosciuta, come se venisse dallo spazio, anche se qualcuno sostiene di averne già trovato il gene responsabile (i geni concorrono spesso a dare una giustificazione scientifica alla nostra immutabilità, e in alcuni paesi a difendere l’utilità della pena di morte, dimenticando che gli studi scientifici, fatti sui gemelli monoovulari, già da molto tempo, hanno rilevato come l’ambiente, l’educazione siano determinanti per la formazione di un individuo). Mi chiedo, però, interpretando Boal, se l’immobilismo, l’incapacità (che spesso si nasconde dietro un’apparente impossibilità) di liberarci, e quindi di agire con consapevolezza, il senso di frustrazione che ne deriva, non ne abbia più di qualche responsabilità.

La scena boaliana, dunque, diventa un utile laboratorio di coscientizzazione e liberazione dalle oppressioni personali, in funzione di una coscientizzazione e liberazione collettiva, che susciti, attraverso il dialogo e l’azione, cambiamento.

 

La struttura a fiaba nel teatro boaliano

La cultura dominante preferisce(…) fingere che il lato oscuro dell’uomo non esista, e professa di credere in un’ottimistica filosofia del miglioramento. La stessa psicanalisi è vista come un sistema per rendere facile la vita: ma non era questo l’intendimento del suo fondatore. La psicanalisi fu creata per consentire all’uomo di accettare la natura problematica della vita senza esserne sconfitto o cercare di evadere dalla realtà. Freud prescrive che soltanto lottando coraggiosamente contro quelle che sembrano difficoltà insuperabili l’uomo può riuscire a trovare un significato alla sua esistenza.(Bruno Bettelheim "Il mondo incantato")

E’ la fantasia che aiuta l’uomo a rispondere alle domande che da sempre lo assillano: chi sono? Da dove vengo? E, dove vado?

Calvino, raccogliendo e studiando le fiabe, giunge alla conclusione chenelle fiabe c’è più realtà che nella vita stessa . (Italo Calvino "Fiabe italiane")

Secondo Bettelheimil messaggio delle fiabe è l’inevitabilità di una lotta contro le gravi difficoltà della vita (…), è una parte intrinseca dell’esistenza umana.(…) .

Il metodo boaliano, presenta una struttura simile a quella della fiaba, dove l’oppresso (che potrebbe identificarsi con la cenerentola brava buona e bella delle fiabe) e l’oppressore (che potrebbe identificarsi con la matrigna strega, brutta e cattiva) sono ben identificati e distinti.

Gli oppressi sono quegli individui o gruppi che sono socialmente, culturalmente, politicamente, razzialmente, sessualmente o in ogni altro modo, deprivati del loro diritto al dialogo o in ogni modo danneggiati nell’esercizio di questo diritto(Boal).

Di conseguenza gli oppressori sono coloro che deprivano altri del loro diritto al dialogo.

Le differenze purtroppo, nella realtà, non sono mai così nette, ma questa struttura permette di imparare a distinguere senza temere di fare delle scelte.

L’essere umano sempre più tecnologicizzato e paradossalmente, sempre più insicuro, ha smesso di credere in Dio, ma si rivolge ai maghi, (maghi e astrologhi occupano un terzo dell’elenco telefonico della regione Lombardia).

Neil Postman sostiene che, con l’invenzione della televisione, l’infanzia sia scomparsa. Secondo la sua analisi, l’infanzia non esisteva prima dell’invenzione della stampa, questa infatti per essere compresa, richiede un apprendimento iniziale, un processo di crescita, mentre la televisione no: tutti, grandi e piccini, possono accedervi. Postman arriva a dimostrare, attraverso un’analisi dei costumi moderni, che con l’infanzia sia scomparso anche l’adulto.

Distinguere l'oppresso dall'oppressore diventa necessario, forse permette anche di ripercorrere quella tappa preziosa che è l'infanzia, alla cui scomparsa Postman addita l'impossibilità di diventare adulti (Neil Postman "La scomparsa dell’infanzia "Armando Editore"2005)

Le scene che vengono create per questa forma di teatro sono scene di oppressione, da qui il nome Teatro dell’Oppresso(TdO).

Supponiamo la scena, di un padre alcolizzato che opprime la sua famiglia. E’ chiaro che anche lui è oppresso, se non per altro, dall’alcol, ma data la sua violenza nei confronti della moglie e in particolare del figlio adolescente che non riesce a vivere una vita sociale normale: viene deprivato del suo diritto al dialogo, è facile identificare il padre nell’oppressore mostro, mentre il figlio nella cenerentola brava, buona e bella delle fiabe. Questa struttura facilita l’intervento dello "spett-attore" sulla scena.

La fiaba semplifica tutte le situazioni, i suoi personaggi sono nettamente tratteggiati, (…). I personaggi delle fiabe non sono ambivalenti(…). La presentazione delle polarità del carattere permette al bambino di comprendere facilmente la differenza tra le due cose (il bene e il male), il che non potrebbe fare con uguale facilità dove i personaggi s’inspirassero maggiormente alla vita, con tutte le complessità che caratterizzano le persone reali. Le ambiguità devono attendere finché una personalità relativamente solida non si sia stabilita sulla base di positive identificazioni. Allora il bambino ha una base per comprendere che esistono grandi differenze tra le persone, e che quindi bisogna operare delle scelte circa il tipo di persona che si vuole essere. (…).-(Bruno Bettelhaim)

Boal nell’introduzione a"Jogos para atores e não-atores" pubblicata a Rio de Janeiro nel 1998, in edizione rivista e ampliata, espone proprio in forma di favola la sua idea antropologica del teatro narrando la storia di Xua-Xua che, dopo aver dato vita al figlio e aver perso il controllo su questa parte, ora separata dal suo corpo, scopre il teatro.

Xua- Xua fu obbligata ad accettare che quel piccolo corpo, anche se era stato nel suo ventre –era stato lei!- era, lo stesso, quello di un altro, con i suoi propri bisogni e desideri.(…) Questo riconoscimento la obbligò a identificarsi: chi era lei? L’obbligò anche a identificare gli altri. (…) Lei si osservava: me e gli altri; me e me stessa. Qui e là, oggi e domani. E’ in quel momento che il teatro è stato scoperto! Precisamente quando Xua-Xua ha rinunciato a recuperare suo figlio in sé stessa, quando ha accettato che egli era qualcun altro. Lei si osservava vista da una parte di sé . In quel momento lei era allo stesso tempo attrice e spettatrice. Lei era spett-attrice come siamo noi tutti spett-attori. Scoprendo il teatro l’essere è divenuto umano.